La ricerca non può essere miope, non può non tenere conto della dimensione di genere. È una questione di efficacia, di risparmio, di maggiore innovazione. Ne è convinta Londa Schiebinger, docente di storia della scienza all’Università di Stanford e a capo del progetto congiunto Ue/Usa “Gendered Innovations in Science, Health & Medicine, and Engineering”, una vita dedicata ad analizzare il contributo delle donne nella costruzione del pensiero. “Un’attività sempre stimolante e mai deludente”, confessa. L’abbiamo incontrata in occasione del convegno “La salute di genere: una proposta per il futuro”, organizzato all’Istituto Superiore di Sanità lo scorso 30 ottobre.
Perché la scienza non può permettersi di essere miope di fronte al genere?
“I dati indicano che il bias di genere presente nella società e nelle istituzioni che fanno ricerca ha dato vita a una scienza e una tecnologia viziate. Il bias di genere nella ricerca ha un costo sia economico sia in termini di vite, e limita la creatività scientifica, l’eccellenza e i benefici che la scienza può dare alla società. Un esempio sono i 10 farmaci che sono stati ritirati dal mercato americano negli ulti anni a causa dei loro effetti collaterali molto gravi: 8 di questi mettevano a rischio soprattutto le donne. Non solo sono stati sprecati milioni di dollari per lo sviluppo di questi farmaci, ma si sono causate morti e sofferenze. Non possiamo permetterci di sbagliare. Il bias di genere nella ricerca è costoso e porta allo spreco. Ma non possiamo limitarci a identificare le storture che una scienza declinata solo al maschile ha prodotto. Dobbiamo rovesciare le cose e metterci sul binario giusto fin dal principio, dobbiamo fare leva sul potere creativo dell’analisi di genere per fare delle nuove scoperte. È quindi importante che i ricercatori imparino a usare l’analisi di sesso e genere nei loro studi fin dall’inizio, così da produrre una scienza migliore, una medicina che aiuta di più le persone, una tecnologia che funziona per tutti”.
Una scienza rispettosa delle differenze si ottiene aumentando il numero delle donne che lavorano nella ricerca?
“In realtà penso che tutti i ricercatori – gli uomini come le donne – debbano imparare l’analisi di genere, un metodo scientifico che tiene conto delle differenze che andrebbe insegnato a scuola, dalle elementari fino all’università. Tutti dovrebbero impararlo”.
Quali sono gli ostacoli principali alla realizzazione di un’innovazione rispettosa delle differenze?
“Il principale è l’ignoranza. Come è possibile che i ricercatori e i medici ancora non sappiano analizzare le differenze sessuali quando sviluppano delle medicine? È pericoloso. Come è possibile che gli ingegneri non analizzino le variabili di genere quando sviluppano un sistema di trasporto urbano? Così non avremo mai sistemi efficienti e con un rapporto costi-benefici positivo. Abbiamo bisogno di imparare come fare. I ricercatori sono sempre alla ricerca di metodi risolutori per le loro ricerche e questo lo è”.
Lei ha citato la questione del trasporto urbano: in che senso l’analisi di genere potrebbe aiutare a realizzare del sistemi migliori?
“Le amministrazioni e gli ingegneri civili raccolgono dati per capire come le persone usano i treni, le metropolitane, i bus. Così da creare il sistema di trasporto pubblico che meglio soddisfi le esigenze della popolazione. L’innovazione di genere in questo caso modifica radicalmente il modo di raccogliere e analizzare questi dati. Tradizionalmente si dividono i viaggi in categorie come lavoro, studio, shopping, piacere. Nessuna di queste prende in considerazione il lavoro di cura: la cura dei bambini, degli anziani, i lavori di casa. Le donne e gli uomini che vanno solo a lavorare viaggiano da una direzione all’altra in maniera diretta. Coloro che si occupano anche di altri fanno dei percorsi molto più contorti: nel percorso dal lavoro a casa, per esempio, potrebbero dover andare a fare la spesa, in lavanderia, a ritirare una ricetta medica. Questi ‘viaggi a catena’ diventano importanti. Se prendiamo in considerazione il lavoro di cura ci accorgiamo che questa è la seconda categoria di viaggio per quantità di persone. Un concetto di genere, perché tradizionalmente la cura è appannaggio delle donne, che però si trasforma in una migliore qualità di vita di tutti. Di tutti coloro, uomini o donne che siano, che si occupano di altre persone”.
Ci sono degli esempi in cui le è apparso chiaro che l’innovazione era figlia di un processo miope al genere?
“Per esempio quando sono stata intervistata da un giornale spagnolo. Quando l’articolo è uscito l’ho tradotto con Google translate e il risultato era che le mie dichiarazioni erano riferite come “lui ha detto”. Questo perché il traduttore automatico è basato su un algoritmo che tiene conto delle ricorrenze: il pronome maschile è più popolare su Internet di quello femminile. Ovviamente questo non era nelle intenzioni dei programmatori, è un gender bias inconscio. A luglio 2012, nell’ambito del progetto Gendered Innovation, abbiamo organizzato un convegno con i principali ricercatori nell’ambito della programmazione linguistica. Ci hanno ascoltato e alla fine hanno esclamato: è facile, si può modificare! Bastava saperlo….”.
via Galileo