I soldi per la sanità non ci sono, il tempo per affrontare le questioni di genere nemmeno. Eppure la medicina delle differenze migliorerebbe salute e conti. Un dossier a cura di Galileo e inGenere.it insieme all’Associazione Donne e Scienza
In un’epoca di spending review come la nostra, la prospettiva teorica, metodologica e clinica della medicina di genere assume un valore quanto mai importante. In discussione non è solo l’appropriatezza delle cure, il fatto cioè che a ogni individuo vengano dispensati i farmaci più adatti ed efficaci, ma anche il risparmio che ne deriverebbe: diagnosi, terapie, interventi mirati e specifici si traducono in un risparmio di tempo e di risorse. Riflessioni che potrebbero apparire banali, se non fosse che sono in parte inedite, e soprattutto non sono mai state implementate nella pratica clinica. La medicina di genere parte dall’assunto – anche questo piuttosto banale – che uomini e donne sono diversi davanti alla malattia. Una differenza che i libri di medicina contemplano quasi esclusivamente per quel che riguarda l’apparato sessuale e della riproduzione.
La pratica medica – teorizzata, gestita, condivisa per millenni da uomini con uomini – è rimasta cieca davanti alle differenze che pure ogni medico incontra nella propria esperienza professionale. Le poche donne che hanno partecipato nei secoli alla costruzione del pensiero medico sono state considerate delle eccezioni e spesso sono state marginalizzate: il pensiero femminile non ha mai raggiunto un volume significativo tale da far nascere una visione di genere della scienza stessa. Fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento quando, sulla scia dei movimenti che nel mondo Occidentale hanno portato le donne a imporre la loro presenza sulla scena della politica, del lavoro, della società, il fortino della scienza ha cominciato a essere espugnato, e sempre più ricercatrici hanno fatto il loro ingresso nella comunità degli scienziati.
Proprio nello stesso periodo in cui la pretesa neutralità della scienza veniva messa in discussione da storiche, filosofe e sociologhe della scienza, negli Stati Uniti nasceva la medicina di genere. E’ infatti solo alla fine degli anni Ottanta che ci si rese conto che, a causa di un’erronea convinzione relativa alla perfetta equivalenza tra i sessi in campo medico, le donne non ricevevano terapie adeguate. Così, grazie agli sforzi di alcune volenterose – tra cui Marianne J. Legato, oggi direttore della Partnership for Gender-Specific Medicine alla Columbia University – cominciò un’azione di stimolo per includere le donne negli studi clinici, e cercare di colmare questa lacuna nelle conoscenze medico-scientifiche. L’idea era quella di andare oltre la salute femminile, di considerare altre patologie oltre a quelle che affliggono il sistema riproduttivo, e analizzare insieme a tutti i fattori biologici che rendono diversi uomini e donne anche l’influenza di fattori sociali, socio-culturali e politici sulla salute delle donne.
Il primo passo da fare era quello relativo agli studi clinici, per decenni condotti solo su uomini. Includere le donne nei trial è difficile per almeno due ordini di motivi: l’organismo femminile va incontro a ciclici cambiamenti dell’assetto ormonale per cui non è facile avere un campione omogeneo di pazienti femminili; nelle volontarie così come nei ricercatori c’è il timore delle conseguenze che le sostanze in sperimentazione possono avere sulla fertilità e sulla salute dei nascituri. Gli effetti di questa esclusione dai trial clinici sono però importanti: in primo luogo, alcune terapie hanno una minore efficacia nel sesso femminile. In secondo luogo, le donne hanno una maggiore frequenza (da 1,5 a 1,7 volte) di reazioni avverse, quegli “effetti collaterali”, spesso spiacevoli e a volte anche gravi, che avvengono nell’organismo ogni qual volta si assume un medicinale. Proprio la gestione degli eventi avversi è una voce di spesa che il sistema sanitario potrebbe ridurre notevolmente se solo i farmaci fossero stati testati anche sulle donne.
Che fare, quindi? È evidente che l’opzione di condurre nuovamente i trial clinici includendo anche le donne non è perseguibile sia dal punto di vista scientifico sia, soprattutto, da quello economico. Dal punto di vista farmaceutico la soluzione individuata è quella della sorveglianza farmacologica post-marketing: i dati sugli effetti collaterali causati dai medicinali una volta immessi sul mercato che sia gli enti di controllo nazionali sia le case farmaceutiche raccolgono. Questi dati devono essere raccolti e analizzati tenendo conto della variabile di genere così da individuare nuove strategie di somministrazione per vecchi farmaci o, come è successo in alcuni casi, arrivare addirittura al ritiro di specialità con effetti collaterali troppo pericolosi per le pazienti. È evidente, tuttavia, che in futuro gli studi sui farmaci dovranno essere eseguiti tenendo conto delle evidenze scientifiche accumulate in ormai quasi 20 anni di medicina di genere. Dal 1997, la Food and Drug Administration, l’agenzia statunitense di controllo sui farmaci, obbliga all’inclusione, là dove ve ne sia possibilità, di una quota di donne nel campione da studiare. In Europa non ci sono regole così stringenti, ma le agenzie nazionali si stanno adoperando per promuovere la sperimentazione anche sulle donne come buona pratica.
C’è poi il fronte della raccolta dei dati epidemiologici e clinici. In cardiologia – disciplina che per prima è stata indagata con uno sguardo alle differenze -, in fisiologia, in oncologia, in immunologia, solo per citare alcuni campi, le evidenze scientifiche della diversità fra uomo e donna nell’esordio, sviluppo e risposta alle malattie sono sempre più stringenti. I testi che compongono questo dossier, che raccoglie parte degli interventi che hanno animato la sessione tematica dell’8° convegno nazionale dell’Associazione Donne e Scienza (Siena, 4-6 ottobre 2012), lo testimoniano: grazie al lavoro di molte ricercatrici e ricercatori nel mondo, e anche in Italia, la medicina sta cercando una via per includere le differenze nella propria pratica.
Il nostro viaggio inizia con lo studio dei farmaci, perché è il campo dove gli effetti della miopia di genere si toccano con mano e perché è da qui che si può partire per cercare di realizzare terapie efficaci e sicure per tutti. Proseguiamo poi con lo studio dei meccanismi del dolore: è questo un tema che meglio di altri esemplifica di cosa parliamo quando parliamo di genere. La risposta agli stimoli dolorosi, infatti, dipende in maniera forte non solo dalla biologia ma anche dall’educazione e dalla cultura. Proprio il modo in cui siamo state educate a pensare le malattie – per esempio dal fatto che tradizionalmente alcune patologie siano considerate più maschili o femminili o dal fatto che alcuni disturbi siano oggetto di campagne di sensibilizzazione mentre altri no – fa sì che si sottovalutino dei rischi. È il caso del tumore al colon retto: dopo quella della mammella, è la forma di cancro che colpisce di più le donne che però non lo temono quanto altri carcinomi, e quindi non seguono adeguatamente i programmi di screening. Il quarto articolo del dossier è dedicato al tumore al polmone, una patologia in forte crescita nella popolazione femminile a causa della crescente abitudine al fumo da parte delle donne. L’aumento dei casi ha fatto sì che emergessero con forza le differenze fra uomini e donne di fronte anche a questa malattia. Infine, abbiamo valuto affrontare anche il tema della professione medica e di come e quanto l’ondata di donne che sta entrando nel mondo della medicina possa cambiare lo stato delle cose. Per farlo abbiamo scelto un caso emblematico: l’urologia, una delle discipline tradizionalmente più maschili e maschiliste, dove pure le cose stanno cambiando grazie al lavoro e all’analisi di un gruppo di professioniste.
L’obiettivo rimane quello di curare la persona al meglio, maschio o femmina che sia. Perché se è vero che la medicina di genere nasce dall’evidenza dell’esclusione delle donne dalla ricerca e dalla pratica clinica, inforcare gli occhiali di genere fa bene a tutti, anche agli uomini. Ci sono, infatti, patologie considerate femminili che affliggono anche gli uomini o che hanno nell’organismo maschile in modo diverso di manifestarsi – basti pensare al tumore della mammella o all’osteoporosi: lo studio delle differenze porterà anche in questo caso a cure migliori, più efficaci e appropriate. E meno dispendiose per tutti, per i singoli cittadini e per il sistema sanitario.
Leggi tutto il dossier