Nei giorni scorsi Piergiorgio Odifreddi in un articolo sul talento delle donne per la scienza metteva in relazione due serie di informazioni, ovvero il numero di nobel alle donne e il ‘grado di astrazione’ delle discipline in cui sono stati conseguiti, per concludere che esiste “Una progressione discendente, che sembra indicare come l’attitudine femminile sia direttamente proporzionale alla concretezza e indirettamente proporzionale all’astrazione”.
Siamo d’accordo con quanto espresso dal Gruppo di lavoro Pari Opportunità dell’Unione Matematica Italiana: trascurare il contesto di riferimento nell’analisi di dati può essere molto rischioso. Nella correlazione tra le due serie di informazioni Odifreddi trascura (potremmo dire ingenuamente) i pregiudizi storici, che hanno sistematicamente impedito alle donne l’accesso al mondo della scienza, confermati dai dati di accesso all’istruzione scientifica nel tempo. Dopo essere state bandite per secoli dalla fruizione e produzione del sapere, in particolare quello scientifico e tecnologico, è solo da metà dell’Ottocento che le donne hanno cominciato la difficile scalata all’istruzione superiore, come ha dimostrato la storica della scienza Paola Govoni. L’Università di Oxford concesse il titolo legale alle donne solo nel 1920. Nel mondo di lingua tedesca fu l’Università di Zurigo la prima, nel 1867, a consentire l’iscrizione alle donne.
Le poche donne che hanno potuto emergere in passato ci sono riuscite grazie all’apertura mentale di istituzioni o singole persone. Il talento di Marie Curie ha potuto esprimersi grazie alla combinazione di diversi fattori: la sua tenacia, che le permise di non arrendersi ai pregiudizi del suo paese, la Polonia, che vietava l’accesso delle donne alle università; la “parziale” apertura delle istituzioni scientifiche francesi e la mente scevra di pregiudizi di Pierre Curie.
Anche la storia di Ada Lovelace insegna che il talento delle donne riesce ad esprimersi dove le circostanze non impediscono accesso al sapere di base, particolarmente importante nelle materie scientifiche. Fortunatamente molto è cambiato per le donne, ma discriminazioni e pregiudizi non sono scomparsi e ritornano in forme più sottili e subdole. E’ del 1999 l’indagine interna sulle discriminazioni di genere al prestigioso e meritocratico Massachussets Institute of Technology. E’ del 2014 l’indagine pubblicata sulla rivista scientifica Plos One che dimostra come comportamenti equivoci, molestie e abusi sessuali siano un rischio concreto per le scienziate che lavorano sul campo. E’ del 2015 l’ultimo rapporto europeo “She figures” che fotografa le difficoltà delle donne nella scienza europea.
Sono anche questi gli ambienti “concreti” in cui maturano le eccellenze da nobel e in cui le donne dovrebbero esprimere il proprio talento. La questione è complessa, e lo sa bene la Commissione Europea che da anni finanzia progetti per indurre cambiamenti strutturali nelle istituzioni scientifiche per il raggiungimento di una equità di genere.
Ora, ritornando alle due serie di informazioni considerate da Odifreddi, avendo in mente la serie storica dell’accesso all’istruzione scientifica e la lenta e faticosa ascesa delle donne negli ambienti accademici, potremmo molto facilmente ipotizzare che le donne siano riuscite ad emergere negli ambienti disciplinari con meno pregiudizi nei loro confronti e quindi che nei settori più “astratti” questi pregiudizi sono più duri a morire!
Varrebbe la pena di indagare questa ipotesi a partire dalla risposta di Odifreddi che sceglie come interlocutore l’unico uomo nel gruppo firmatario della lettera a lui rivolta, e non il primo nome come da prassi scientifica e non scientifica.